I nativi digitali non sono tutti uguali - di Luigi Gaudio

Siamo abituati a considerare i nostri giovani come "nativi digitali" in modo indistinto, in quanto dotati di competenze quasi "innate" in campo informatico e telematico, che noi, cha abbiamo passato gli "anta" non abbiamo assolutamente. Una ricerca del professor Paolo Ferri dimostra come invece siano necessarie delle distinzioni soprattutto fra la fascia dei giovani dai 19 ai 26 anni (per intenderci, gli studenti universitari) e la fascia dei bambini fino ai 12 anni.





Riportiamo, per approfondire, la classificazione, tratta da un articolo di Paolo Ferri apparso su Education due punto zero:





I NATIVI DIGITALI SPURI: GLI STUDENTI UNIVERSITARI

Che significa definire nativi digitali spuri gli studenti universitari? In realtà, i nostri dati dicono che navigano tantissimo in Internet, quasi tutti utilizzando la banda larga. Usano sempre più il cellulare prevalentemente per sms, foto e video (poco per navigare in Internet), non guardano quasi più la televisione, sentono poco la radio e purtroppo continuano a non leggere libri (men che meno ebook), se non quelli che studiano. Tuttavia il loro uso del Web è ancora “molto analogico”, molto Web 1.0. Sono loro stessi a definirsi utenti di base del Web e solo il 21 per cento si definisce un utente esperto. Gli studenti universitari navigano molto, usano i blog e leggono quelli dei loro amici, ma meno nel 2010 che nel 2009, a causa come vedremo del fenomeno Facebook.

Il fatto è che la loro capacità di gestire i tools del Web 2.0 è stata un po’ sopravvalutata, da tutti noi immigranti che ci occupiamo di nuovi media. O meglio, oggi possiamo dire che sia stata proiettata su questa generazione di confine una serie di competenze digitali, una fluency e una literacy tecnologica che è propria solo dei più piccoli, i nativi digitali puri (0-12 anni).
I NATIVI DIGITALI PURI: I BAMBINI TRA GLI 0 E I 12 ANNI
Se prendiamo, invece, in considerazione i bambini tra gli zero e i 12 anni, ci rendiamo conto che sono loro i veri nativi. Hanno un’esperienza diretta sempre più precoce degli schermi interattivi digitali — consolle per i videogiochi, cellulari, computer, iPod — così come della navigazione in Internet.

Nelle loro case e nelle loro camerette, infatti, i media digitali sono sempre più presenti insieme alle esperienze di intrattenimento, socializzazione e formazione che vengono mediate e vissute attraverso Internet e i social network, oltre che dalle consolle per videogiochi.

Henry Jenkins, già direttore del
Comparative Media Studies Program presso il Mit di Boston e oggi Provost alla Annenberg School of Communication della University of Southern California, definisce l’insieme di questi comportamenti come la nuova “cultura partecipativa informale” dei nativi. “La cultura partecipativa dà un forte sostegno alle attività di produzione e condivisione delle creazioni digitali e prevede una qualche forma di mentorship informale, secondo la quale i partecipanti più esperti condividono conoscenza con i principianti. All’interno di una cultura partecipativa, i soggetti sono convinti dell’importanza del loro contributo e si sentono in qualche modo connessi gli uni con gli altri”, scrive Jenkins. I bambini tra gli 0 e 12 anni, sono, infatti, il primo gruppo veramente digitale. È ai loro comportamenti che dobbiamo guardare, più che ai comportamenti dei nativi digitali spuri, per capire il nostro futuro e per costruire un mondo che sia più accogliente per i nostri figli.

Restano solo due domande: gli insegnanti i genitori e i decisori nel mondo della formazione sono consapevoli e attrezzati a gestire questa rivoluzione antropologica e cognitiva in corso? I politici e i decisori istituzionali sono consapevoli della distanza sempre più grande che separa gli stili di produzione e progettazione dei prodotti dell’industria culturale dai nuovi stili di fruizione dei nativi digitali? La risposta è aperta ma per parafrasare Philip Dick in Ubik “ I nativi digitali sono vivi, noi stiamo... invecchiando”.
Per un ulteriore approfondimento, consigliamo di acquistare il libro di Paolo Ferri, “Nativi digitali”, saggi Bruno Mondadori , di cui riportiamo qui sotto l'introduzione:





Secondo un fortunato apologo attribuito a Seymour Papert (1996), se un alieno dalla vita millenaria fosse ritornato sulla Terra nel 2000 dopo cinquecento anni di assenza, avrebbe trovato irriconoscibili i laboratori scientifici – per esempio quelli di fisica, non potendo mettere a confronto gli studi di Newton e Galileo con i Bell Labs o il CERN –, ma avrebbe riconosciuto facilmente un luogo deputato alle assemblee politiche, una chiesa o un’aula scolastica: non molto è cambiato da allora.
Dal centro alla periferia, il modello gutenberghiano di diffusione dei saperi richiede una configurazione uno-molti anche nelle modalità della comunicazione. Alcuni esempi: lo schermo televisivo e i nostri divani, una cattedra e molti studenti, una voce che parla in un’assemblea e molti astanti che ascoltano.
Oggi, però, i nuovi stili di comunicazione abilitati dalle tecnologie digitali tendono a trasformare la tradizionale configurazione della comunicazione (Bolter 1991), così come gli spazi dell’apprendimento per renderlo più adatto a bambini e bambine che hanno davvero caratteristiche molto “originali”. Quello che è successo è che, tra il 1985 – anno della diffusione di massa dei PC a interfaccia grafica e dei sistemi operativi a finestre – e il 1996 – l’inizio della rivoluzione di Internet –, si è affermata rapidamente una nuova “versione 2.0” dell’Homo sapiens: si tratta dei “nativi digitali”.
I nativi sono molto diversi da noi “figli di Gutenberg”. Sono nati in una “società multischermo” e interagiscono con molti di questi schermi fin dalla più tenera età. Questo perché sono numerosi i monitor interattivi dai quali sono circondati fin dalla nascita – computer, consolle per videogiochi portatili, cellulari smartphone, navigatori satellitari. Ora è importante comprendere come per i nativi digitali questi schermi costituiscano soprattutto strumenti di comunicazione e di interazione sociale e tra pari (Prensky 2006). Per esempio, il display del cellulare è per i nativi uno spazio per giocare, per comunicare attraverso gli SMS. Come lo è l’obiettivo della videocamera del cellulare usata per “pubblicare” contenuti on-line. Solo pochi nativi utilizzano il telefonino per le comunicazioni in voce (anche a causa del costo), soprattutto per il loro differente stile comunicativo. Ora, ovviamente, è soprattutto lo schermo del computer connesso a Internet quello che amano di più. I “nativi” sono diversi da noi perché, a scuola (Pedró 2007; 2008), a casa e con gli amici, sono sempre accompagnati dalle loro protesi comunicative ed espressive digitali che contribuiscono a delineare il perimetro del loro sé e del loro agire (Moriggi, Nicoletti 2009). Per questo i “nativi” si “espongono” su Facebook, sui blog o su YouTube, vivono nello e sullo schermo, allo stesso modo in cui abitano il mondo reale. Questo rende il loro modo di “vedere e costruire il mondo” molto differente dal nostro (Goodmann 1978).
È la diffusione di Internet che ha enfatizzato in maniera eclatante questa trasformazione. I computer non sono più solo strumenti di produttività individuale, ma sono soprattutto mezzi di comunicazione, espressione e creazione condivisa della conoscenza.
La situazione di noi “immigranti digitali” appare, per contro, ancora molto più “prudente” e cauta, se non “negazionista” (Rivoltella 2006b; Mantovani, Ferri 2008). I nativi, invece, stanno sviluppando nuove rappresentazioni, metodi per conoscere e fare esperienza del mondo. Stanno, cioè, sperimentando differenti schemi di interpretazione della realtà che li circonda. Wim Veen – studioso olandese di nuovi media – utilizza, per esempio, la metafora dell’Homo Zappiens per identificarli:
Il termine Homo Zappiens identifica una generazione che ha avuto nel mouse, nel PC e nello schermo una finestra di accesso al mondo. Questa generazione, i nativi digitali di Prensky, mostra comportamenti di comunicazione e apprendimento differenti dalle generazioni precedenti; in particolare, apprende attraverso schermi, icone, suoni, giochi, “navigazioni” virtuali e in costante contatto telematico con il gruppo dei pari. Questo significa sviluppare comportamenti di apprendimento non lineari e non alfabetici (Veen, Vrakking 2006; trad. it. p. 11).
Lo stile di comunicazione e apprendimento dei nativi è ludico, fortemente orientato all’espressione di sé, alla personalizzazione e alla condivisione costante di informazione (sharing) con i pari (peering).
Per esempio, per quanto riguarda i videogiochi (su consolle, telefonino e notebook), alcuni di questi non hanno nulla a che fare con l’apprendimento poiché si limitano ad attivare funzioni neurali di tipo percettivo-motorio (azioni automatiche e di stimolo-risposta) che nel lungo periodo non aiutano le capacità di apprendimento. Altri videogiochi, quelli di strategia e costruzione di mondi possibili quali Sim- City – il cui fine è costruire e amministrare una città –, sviluppano l’attenzione selettiva, la “riserva cognitiva” e la capacità di apprendere una modalità nuova. “Videogiocare” ai Sims o a SimCity implica una costante “attenzione selettiva”, la ricerca incessante di soluzioni a problemi. Implica, cioè, lo sperimentare ruoli differenti all’interno del contesto del gioco e quindi rappresenta una modalità di attivazione di apprendimenti ed esperienze anche sociali: ormai si gioca on-line con altri “nativi umani” e non solo con o contro le macchine.
I videogiochi sono solo la punta di un iceberg. I nativi hanno a disposizione una grande quantità di strumenti digitali di apprendimento e comunicazione formativa e sociale. Molti strumenti hardware: notebook, tablet (iPad), consolle connesse a Internet (Wii, PlayStation 3), eBook (Kindle), iPod, smartphone; e molte piattaforme software 2.0: i social network (Facebook e MySpace, Habbo e Netlog), MSN Messenger, i blog, YouTube, Wikipedia e i wiki. Uno dei comportamenti di apprendimento più originali dei nativi è il multitasking: studiano mentre ascoltano musica, e nello stesso tempo si mantengono in contatto con gli amici attraverso MSN, mentre il televisore è acceso con il suo sottofondo di immagini e parole. Il problema del sovraccarico cognitivo è risolto attraverso il continuo passaggio da un media a un altro, tramite uno “zapping” consapevole tra le differenti fonti di apprendimento e di comunicazione. I nativi digitali, infatti, stanno imparando a “navigare” tra i media in maniera non lineare e creativa. Noi adulti cerchiamo sempre un “manuale” o abbiamo bisogno di strumenti per inquadrare concettualmente un oggetto di studio prima di dedicarci a esso.
I nativi no! Apprendono per esperienza e per approssimazioni successive. Non è detto che sia un dato positivo, ma è un fatto.
Non si tratta di un fenomeno marginale: in media il 90% dei preadolescenti statunitensi e quelli degli stati dell’Unione europea usa Internet, decine di milioni di adolescenti e preadolescenti statunitensi ed europei hanno un blog, una loro identità on-line su Facebook o MySpace, e lo stesso vale per i circa tre milioni di bambini e preadolescenti italiani. I nativi sono simbionti strutturali delle tecnologie e navigano e condividono contenuti e sapere con i loro pari attraverso la rete .
Questo nuovo stile cognitivo e di apprendimento pone a noi figli del libro un problema cruciale: come stabilire un linguaggio comune con loro, come superare il digital divide intergenerazionale? Non si tratta di un problema piccolo: la cultura alfabetica sta cedendo il passo a quella digitale e non è facile traghettare al digitale la memoria analogica della cultura dell’Homo sapiens 1.0 per renderla disponibile ai nativi che appartengono alla specie dell’Homo digitalis o dell’Homo sapiens 2.0. È la sfida e la responsabilità che portiamo noi immigranti digitali. Questo è tanto più vero dal momento che una serie di ricerche degli ultimi anni, come per esempio la “New Millennium Learners”, un approfondimento di OCSE-PISA, dimostra che le tecnologie a casa e a scuola migliorano gli apprendimenti e rendono più “brillanti” i nostri digital kids (Pedró 2006, 2008). In tutti i paesi dell’OCSE, salvo rare eccezioni, esiste una correlazione diretta tra i punteggi ottenuti nell’indagine PISA sugli apprendimenti e l’utilizzo e un uso “appropriato” di tecnologie a casa e in famiglia, e questo è solo un esempio relativo all’apprendimento. Ma noi immigranti digitali che strumenti abbiamo per capire chi sono i nativi? Come possiamo comprendere il loro nuovo modo di vedere e costruire il mondo? Come comunicano? E cosa ancora più importante: come valorizzare le loro potenzialità? È a tali domande che ci proponiamo di fornire in questo volume alcune risposte, sicuramente non “vere”, ma “sufficientemente fondate”.

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